Accadde oggi…

173 anni fa la nascita di Ambrogio Bazzero, poeta limbiatese legato alla Scapigliatura: 15 ottobre 1851 – 7 agosto 1882

Figlio secondogenito di quell’Ercole Bazzero primo sindaco di Limbiate a cui si deve in buona parte la “costruzione” di quella che oggi è Villa Mella, nella sua breve vita (morì di tifo a soli 31 anni) si dedicò allo studio della storia, dell’arte e dell’archeologia. Appassionato collezionista ed esperto di armi antiche, fu scrittore e poeta.

Così lo descrive l’amico Emilio De Marchi:

“Era nato il 15 ottobre 1851 a Milano, da una ricca famiglia. L’essere ricco non nocque a lui come nuoce a molti che la troppa fortuna confonde e stanca, perché il denaro non gli impedì mai di studiare e di fare del gran bene alla povera gente…

Fin da fanciullo ebbe sotto gli occhi i malinconici dintorni del suo Limbiate e i grandi boschi di pino silvestre che coprono una vasta zona dell’alto Milanese…

Fra questi boschi era solito errare il giovinetto colla mente accesa dai tanti romanzi storici che noi tutti in quegli anni abbiamo avidamente cercati…

Fu un diligente coltivatore del dolore. Ebbe torto di rifiutare tutte le gioie che questo mondo gli poteva dare, e di schernirle, come insulse o troppo volgari.

A Limbiate, in mezzo ai contadini, egli si sentiva più libero e più allegro…

Un credere altrove, sempre troppo remota da sé, una felicità che non esiste che in noi, le continue apprensioni, pur troppo non false, del suo presto finire, erano le cagioni che lo facevano comparire ora torbido e rinchiuso, ora sospettoso e incostante.

Da qualche lettera risulta ch’egli meditò più volte la morte, e vi andò vicino…

Il tifo che l’aveva già colpito nel 1873, lo assalì una seconda volta ai primi dell’agosto del 1882. Fu una malattia rapida, senza pietà. Morì il 7 agosto 1882: non aveva ancora compiuto 31 anni.”

Pubblicò articoli su diverse riviste dell’epoca ed alcune opere letterarie: i drammi “Angelica Montanini” (1875) e “Tintoretto” (1875) e la prima parte di un romanzo storico rimasto incompiuto “Ugo, scene del secolo X” (1876). Fu molto amico di Emilio De Marchi, con cui fondò la rivista letteraria “Vita Nuova”, vicina alla Scapigliatura milanese. Spirito malinconico e solitario, amò molto Limbiate e la sua quiete, la sua campagna e gli umili contadini.

Oh mesti crepuscoli di Limbiate!

O mio tranquillo cimitero di Limbiate, ti amo! O miei boschi! O pini! – Purché io sia tra voi o mi immagini di essere tra voi, il mio cuore si esalta, l’anima mia diventa buona […]

O mio cimitero! Ti vedevo tutti i giorni quando pensavo all’amore! […].

Il cimitero vecchio non serve più per le tumulazioni: ebbene amo già il nuovo, perché presento che vi giacerò […].

(da “Storia di un’anima”, Ed. Treves, 1885)

Il vecchio cimitero di Limbiate di cui parla Ambrogio Bazzero è quello oggi conosciuto come “Il Monumentalino”, ubicato tra i boschi delle Groane, con accesso da una stradina laterale all’attuale via Fratelli Cairoli, praticamente di fronte alla Grotta di Lourdes.

Alla sua morte, tuttavia, il Bazzero non fu sepolto a Limbiate, ma a Milano. I parenti vollero comunque ricordarlo con una lapide, ancor oggi visibile, collocata proprio nel suo amato “vecchio cimitero di Limbiate”.

A Limbiate lo legò anche un amore infelice e impossibile per una donna straniera, colta ma di umili origini, che viveva del suo lavoro di istitutrice, quella Lidia tante volte da lui ricordata nelle pagine più intime, in quei diari che amici e parenti, dopo la sua prematura scomparsa, vollero pubblicare nel volume “Storia di un’anima” (1885).

Nell’introduzione a questo libro da lui curata, l’amico Emilio De Marchi ricordò con fervida passione, non disgiunta dal rimpianto, l’uomo Ambrogio, al di là delle qualità letterarie oggi quasi completamente dimenticate:

Il Bazzero era nato il 15 ottobre 1851 a Milano, da una ricca famiglia. L’essere ricco non nocque a lui, come nuoce a molti che la troppa fortuna confonde e stanca, perché il denaro non gl’impedì mai di studiare e di fare del gran bene alla povera gente.

Fin da fanciullo, dice un santo libricciuolo che mi fu dato di consultare, Ambrogio mostrò animo così pietoso, che non osava far male a una formica. D’inverno spargeva miglio e briciole di pane sul davanzale della finestra e godeva a vedere gli uccelli che venivano confidenti a mangiare. Era così semplice ne’ suoi gusti che un fiore, un frutto, un bambino, un cagnolino rapivano subito la sua attenzione e bastavano a consolarlo e a rallegrarlo.

Questa semplicità di gusto egli conservò sempre, e passeggiando con lui, era curioso il vedere come egli sapesse rilevare il bello e il grottesco nelle cose più comuni, nel saltellare elastico d’un passerotto sull’erba, o nel subito atteggiarsi d’un gatto, o nei ghirigori d’un’inferriata, o nella frase volante d’un vetturale, o in un proverbio di contadini, dei quali sapeva ingegnosamente imitare la cadenza e i fiori del linguaggio. […]

Il pensiero era libero e audace, ma la volontà paurosa. Di questo squilibrio di forze, fra l’occhio che vede e la mano che non osa, egli si querelava spesso con me durante il nostro viaggio di piacere a Firenze e a Venezia, e spesso ne piange anche in questo libro, che è la storia dell’anima sua. Più che i codici amava le sue armi antiche di cui aveva in casa una ricca collezione, i suoi elmi, le sue spade rugginose, le celate, gli stocchi, gli archibugi a ruota. Né minore era il suo entusiasmo per ogni altra sorta d’anticaglia, mobili, stipi, poltrone, inferriate, tappeti, e non già per moda, come usarono poi molti dei nostri ricchi, ma per il sentimento che gli faceva credere d’abbracciare in quelle cose lo spirito di più generazioni. Alle anime generose è poca soltanto una vita. […]

Non so dire se più dell’arte egli amasse la libera natura.

Fin da fanciullo ebbe sotto gli occhi i malinconici dintorni del suo Limbiate e i grandi boschi di pino silvestre che coprono una vasta zona dell’alto Milanese, luoghi di caccia una volta e di sontuose villeggiature, oggi ingiustamente abbandonate. Per quei boschi, nati nell’ingrato solco della sodaglia, i sentieri si avviluppano in un inestricabile labirinto di selve, fra eserciti agglomerati di conifere, sottili, diritte, vicine, che quasi si toccano, che tolgono la luce del cielo o la lasciano solamente biancheggiare fra ciuffo e ciuffo pallidamente. E scendono e salgono le viottole in un mare di eriche e di felci.

Stride la gazza, passa a volo, e va squassando le ali a posarsi sull’orlo d’un laghettone, in cui la piova del bosco si riversa in uno stagno viscido e giallastro che dorme nel silenzio verde della pineta.

Tu vai e vai per miglia e per ore e non trovi che solchi, avvallamenti e nuovi eserciti di pini scaglionati su una vetta, talché ora ti pare d’essere a un valico alpino, ora in un parco reale, ora in un deserto. Non una voce odi, non un fiato, se non è quello del vento che passa al disopra: o tutto a un tratto lo scoppio aspro d’ un fucile e il frascare d’un cane. Vai ancora. Il bosco si schiarisce.

Al di là scorgi un non so che di bianco. È un cimitero abbandonato, sepolto nel verde, dove vorresti sdraiarti tutto supino, colle mani in croce, e chiudere gli occhi, e dormire, dormire nel seno molle della madre terra. […].

Pagina aggiornata il 17/07/2024

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